Il flamenco nasce come espressione elitaria, privilegio di pochi, sviluppandosi nella bassa Andalusia (il triangolo formato dalle province di Jerez de La Frontera, Cordova e Siviglia) dall’incontro tra la musica popolare andalusa (ricca di valenze orientaleggianti dovute alla lunga dominazione araba su territorio spagnolo) ed il patrimonio espressivo dei gitani, stanziatisi nella penisola iberica a partire dal 1500. Si tratta dunque di arie popolari già presenti in Andalusia, rielaborate e reinterpretate dai gitani, secondo quel particolarissimo e virtuosistico modo d’interpretare, proprio degli zingari di tutto il mondo.
L'origine della parola flamenco è incerta: per alcuni deriva dall’ arabo Fellahmengu che significa "contadino senza terra"; per altri “Los Flamencos” significa “I Fiamminghi” ovvero coloro che avevano combattuto ai primi del 600 nell’esercito delle Fiandre, ricoprendosi di gloria; per altri deriva da Flamencos, ovvero fenicotteri, in riferimento ai colori vivacissimi delle loro piume, che li accomunano alle tinte sgargianti che indossano i gitani.
I gitani raccontano nel flamenco la loro storia, l’odissea di un popolo alternativamente perseguitato e privilegiato. Dopo un primo periodo idilliaco in Spagna, in cui si facevano passare per condottieri cristiani, cominciarono le persecuzioni, le espulsioni e le torture (dovevano abbandonare i loro usi e costumi pena il taglio delle orecchie). Ecco perché nel flamenco sentiamo quei tipici lamenti (ahy… ahy…) così particolari e caratteristici solo di questa musica che la rendono inconfondibile ed allo stesso tempo così accattivante. Risulta difficile non sentirsi coinvolti da melodie che narrano di amori non corrisposti, di famiglie spezzate, di lavori forzati, di anni di reclusione lontano dai propri cari.
Per questo forse il flamenco sembra racchiudere in sé una contraddizione inspiegabile, quasi magica: è un’espressione d’élite, solo per pochi (i gitani si considerano i soli depositari di quest’arte, che ritengono di aver creato) in grado però di magnetizzare l’attenzione, di ipnotizzare qualsiasi pubblico, in qualsiasi parte del mondo.
Oltre alla teoria della nascita del flamenco in Andalusia, come Cante Jondo (canto grande, profondo), alcuni studiosi ne farebbero derivare l’origine dal ben più antico Kathak indiano, una vigorosa danza orientale portata in Spagna dai Gitani attraverso l'Egitto, attorno al 1420. Effettivamente tra le due danze vi sono alcune importanti somiglianze: i piedi danno il ritmo, rappresentano uno strumento di percussione, i passi sono scattanti, mentre le braccia si muovono con eleganza. A differenza del Kathak indiano - però - nel flamenco si usano scarpe chiodate nella suola e nel tacco e le danzatrici usano sollevare i lembi del costume; vengono usati ventaglio e nacchere per amplificare i gesti delle braccia ed il battito delle mani per "marcare" tempo e controtempo.
Se indiscutibilmente il primo periodo di elaborazione e gestazione del Flamenco è essenzialmente gitano, la seconda tappa - che ha permesso un’estensione considerevole del suo repertorio ed uditorio - è soprattutto paya (non gitana) o andalusa.
Dunque, potremmo affermare che la trasmissione di un certo numero di canti, soprattutto di uno stile d’interpretazione e di un modo di vivere il Flamenco, in seno ad alcune famiglie gitane, è una realtà incontestabile; non possiamo però dimenticare il ruolo svolto da artisti geniali come l’italiano Silverio Franconetti (1839-1889), Antonio Chacon (1869-1929), Pepe Marchena e molti altri (tutti non gitani), senza i quali quest’arte minoritaria – anche nella sua patria – non avrebbe mai assunto la dimensione universale raggiunta oggi.
Il Flamenco oggi è presente nel cinema, grazie a registi quali Pedro Almodovar e Carlos Saura o ad attori come Antonio Banderas, Javier Bardem, Penelope Cruz, Carmen Maura, Victoria Abril; nella musica, con Paco de Lucia, Manolo Sanlucar, Tomatito, Vicente Amigo ed altri grandi chitarristi ha varcato da tempo i confini nazionali; le rumbe di Peret, dei Gipsy Kings e del gruppo Los del Rio (autori della famosissima “Macarena”) hanno fatto ballare pressochè tutto il mondo. Nella danza flamenca, invece, il più conosciuto è senza dubbio Joaquìn Cortès il quale è riuscito - come per altro molti altri meno noti - a creare un connubio perfetto tra ritmi e movenze di matrice squisitamente flamenca, ed altre sonorità o contaminazioni ad esso apparentemente estranee (salsa, jazz, contemporaneo, classico, tiptap, ecc.).
Ai non esperti, la musica flamenca può apparire tutta piuttosto simile, dal momento che si fonda effettivamente su alcune “melodie di base” (che prendono normalmente il nome dalla zona di nascita: Sevillanas di Siviglia, Alegria di Cadice, Buleria di Jerez, Fandango di Huelva, ecc.) che costituiscono un codice di riferimento comune, sul quale gli interpreti (chitarristi, cantanti e ballerini) si esprimono liberamente, ma usando tutti uno stesso linguaggio. Queste “melodie di base” o “generi” (palos) sono almeno un cinquantina, ognuno con un suo ritmo specifico. Si va dai ritmi semplici (3/4, 4/4 ecc. ) a quelli composti. Caratteristica del flamenco sono le sonorità tipiche del modo musicale frigio dominante. Su questi ritmi gli artisti improvvisano, con una base comune prestabilita; è importantissimo dunque che tutti gli interpreti siano in grado di dominare questo codice comune che governa l’esecuzione, basato sul compàs (il ritmo) che accorda il battito delle mani (palmas), la sequenza ritmica dei piedi (zapateado), con la chitarra (guitarra) e la voce (cante).
Per saperne di più, vedi la voce Notizie sul flamenco, in questa stessa sezione.
Tutte le musiche professionali degli Zingari, rivelano differenze in funzione delle abitudini imposte dalle culture musicali autoctone, ma presentano singolari similitudini e una certa aria di famiglia, dovuta al temperamento zingaro dei musicisti, che fa riconoscere immediatamente l’interprete, qualunque strumento o musica suoni. Questa matrice zingara, è forse la cosa più difficile da definire. Nella musica strumentale, è una virtuosità diabolica da togliere il fiato, mai meccanica ma sempre animata da un’angoscia dionisiaca. Nei movimenti lenti, è il languore esacerbato, la melanconia più dolce e più amara, la nostalgia più tenera e più crudele. Nei voli rapidi è la foga, scatenamento dei sensi, parossismo che unisce in un’ unica fiamma ardente la cantante di Mosca e la danzatrice di Siviglia, i musicisti di Ankara e i cantaores di Jerez. Nella musica zingara, conta non il suono puro e leccato, imposto dall’accademismo dei Conservatorii, ma l’espressività ad oltranza, un suono troppo umano per essere percepito senza uno sconvolgimento totale dell’essere.
Nel flamenco, si dice che una voce non deve essere bella, ma fare male: non deve piacere, ma ferire come un pugnale, un grido straziante che sorge dalle viscere e proietta l’ascoltatore nell’estasi sacra del duende.
Il duende: “potere misterioso che tutto il mondo sente e che nessuna filosofia spiega … un potere e non un modo di fare, una lotta e non un pensiero … non è questione di capacità, ma di stile vivente, di una vecchissima cultura, creazione in atto … non è nella gola, sale all’interno a cominciare dalla pianta dei piedi” (Federico Garcia Lorca).
Il duende - questa condizione di estasi, che occasionalmente può impossessarsi dell’interprete - ha il potere di far trionfare la materia più povera, la cantante senza fiato o senza voce, la danzatrice più grassa o più vecchia. Il duende riesce a superare i limiti dell’incomunicabilità. Ha del miracolo. Non si raggiunge mai senza rischi da una parte e dall’altra. Non si ripete mai e non s’impara. E’ celato nel sangue, dicono i gitani.
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